Sergio Risaliti, “Il disordine è sacro: L’arte non si crea, si trova” in “Manfredi Beninati”, Cambi, 2016
Dopo la partecipazione a una mostra “insulare” a fianco di Enzo Cucchi e di Laboratorio Saccardi¹, giovane coppia di artisti palermitani, Manfredi Beninati è tornato alla galleria Poggiali, dove ha presentato una serie di nuovi lavori: pittura, scultura, fotografia. Bronzi, light-box, bassorilievi in gesso, assemblage. La strategia espositiva che Beninati ha adottato, con lo scopo di attirare e sedurre lo spettatore, funziona in questo modo: cambi di scena, di ritmo, di materiali, di luce, d’iconografie eccetera. Vince la varietà, la voglia di stupire e d’incantare, di incuriosire e di affascinare piacevolmente. L’arte per Beninati è un’esperienza iniziatica, orfica. L’arte si trova, in strada, nelle pieghe dell’inconscio, tra gli scaffali della memoria collettiva; è un attimo di grazia, d’illuminazione. L’artista si fa veggente e chiaroveggiente, sciamano e alchimista. Di stanza in stanza si susseguono i capitoli di una metamorfosi. Beninati ha un notevole controllo dei mezzi e delle tecniche, e la sprezzatura, come nella migliore tradizione italiana, non deve trarre in inganno. Nel progettare e nel fare, mescola furore e concentrazione, smania e meditazione. Manipola la pittura con procedimenti lenti e/o rapsodici; lo stesso accade con la scultura. Ogni fotografia è costruita con lentezza; prima dello scatto c’è un lungo processo di strutturazione e organizzazione di un set. Nella giovinezza Beninati ha lavorato nel cinema, dove ha preso dimestichezza con la scenografia e il montaggio. Sa dare un aspetto di naturalezza anche alla confusione di uno studio d’artista. In mostra è un avvicendarsi e un rincorrersi di differenze e di salti tematici, di contrasti e di diversità linguistiche, così come di analogie, di somiglianze e di corrispondenze formali, segni, immagini che si muovono trasversalmente da una sala all’altra, da una materia all’altra. L’ambientazione intimista, ermetica, delle fotografie luminose, con la loro atmosfera notturna, di pittura nordica seicentesca, è distante dal mondo fantasmagorico dei bassorilievi in gesso. Qui la sceneggiatura non è del tutto razionale, ma non è neppure del tutto casuale. V’è un’abile dosatura d’improvvisazione e di programmazione, di estemporaneità e di pianificazione. Dipingendo la materia sa lasciare andare liberamente la mano. I bassorilievi sono dipinti in modo informale, veloce, spargendo il colore sulla forma, facendolo scivolare e impastandolo, mescolandolo, in certi casi sporcandolo. Beninati è strategicamente eclettico. Nelle tecniche, nelle citazioni. Nelle lastre il campionario iconografico è ricchissimo: una Venere giorgionesca convive con paesaggi esotici, un feto galleggia sulla superficie del gesso, una marina impressionista con una scena mitologica, pittura settecentesca e segni informi, impronte e citazioni; insomma, un pastiche mnemonico e formale. Affiorano ricordi di giornate trascorse nelle dolci colline intorno Firenze o in Versilia, luoghi cari ai pittori ottocenteschi e del Novecento come Silvestro Lega e Carlo Carrà. Girando per le stanze della galleria si ha continuamente l’impressione che l’artista abbia voluto disorientarci, imbrigliarci, costringendoci a perdere la strada, tappa dopo tappa, in un labirinto concettuale, figurativo, tecnico e materiale per dare un ritmo emotivo, “reminescente”, alla nostra esperienza visiva; ci fermiamo davanti a un nucleo di lavori, prendiamo confidenza con quel linguaggio e quelle immagini, ma la serie successiva ci impegna in una nuova avventura estetica. Le immagini sono di luce, poi di gesso e di bronzo, dipinte, addirittura non illusorie, sono oggetti trovati. Il percorso è costruito, in termini epistemologici e psicologici, secondo una visione aperta, come se entrate e uscite, piani e sequenze, fossero realtà parallele e intrecciate, specchianti e reversibili. Beninati ci dice con queste opere che è possibile vivere più vite, e che ci troviamo ad agire in più mondi e su diversi piani temporali, e questo accade contemporaneamente. A livello formale, ad esempio, la sprezzatura nei bronzi e nei gessi, è una cosa, altra esperienza è la finta casualità nelle immagini luminose e negli assemblage. Ma il percorso funziona anche a “rebours”.
In certi casi, la realtà quotidiana offre occasioni di sorpresa e di meraviglia. Camminando per strada Beninati trova opere già fatte. S’imbatte in oggetti abbandonati e accatastati a fianco di un cassonetto. Eppure, queste cose affastellate, oggetti di arredo datati e usati, gli appaiono ammonticchiate con una certa perfezione geometrica, come se il proprietario si fosse improvvisato, a sua insaputa, in una “natura morta” disponendo e sovrapponendo facendo attenzione alle proporzioni, alla profondità, immaginando una piramide visiva. Sono oggetti che a loro modo raccontano una storia. Prima di essere distrutte in una discarica salutano il mondo con gentilezza e con un certo decoro. Lo spettatore, come il passeggiatore, il più delle volte è disattento, distratto, colmo di pregiudizi, o di a priori, non si avvede di quanta arte ci sia per le strade. Si annida dietro un cassonetto, in una bancarella di cianfrusaglia, tra i manifesti strappati. Sono immagini evocative; il più delle volte di tono malinconico. Sono delle “vanitas”. Nel nostro caso, Beninati ci sollecita a fermarci e ripartire, a guardare da lontano e da molto vicino, per cogliere il generale e il particolare in cose marginali. Per entrare nella realtà ancora una volta e da un’altra porta, facendo saltare la linearità temporale. Il tempus fugit. I light-box richiedono, ad esempio, questo tipo di attenzione, un continuo assestamento della vista, dal generale al particolare, dal centro dell’immagine verso i bordi, dalla luce all’oscurità. Riesce, però, ad ottenere questo tipo di prestazione anche nel caso di un’installazione. In una stanza della galleria, Beninati ha deciso di presentare un assemblage nato quasi per gioco, per provocazione, un po’ per caso. Eppure, quell’allestimento ha un valore metodologico fondamentale. Con finalità anche didascalica, Beninati ha affisso, a fianco di una porta, aperta su una piccola sala, una foto che ha scattato in un vicolo fiorentino. Nello scatto vediamo quello che ha interessato l’artista, e che tra un attimo richiederà la nostra attenzione. Uscendo da un ristorante si è imbattuto in qualcosa che lo ha, letteralmente, incantato. Nella fotografia si vedono dei mobili, un gruppo eterogeneo di oggetti di scarto, disposti con ordine piramidiale. Beninati, non si è fermato a fotografare la scena. Ha raccolto uno ad uno gli oggetti di scarto per portarli in galleria, dove gli ha ri-allestitti tali e quali, rispettando rigorosamente la composizione scoperta in strada. Si è aiutato con la fotografia che ora stiamo guardando. Non è facile capire cosa abbia provocato in lui tanto interesse, cosa abbia giustificato tanta ammirazione. In fondo si tratta di una situazione che si ripete tante volte in città. La gente si disfa dei propri beni, sgombera cantine e soffitte. Eppure una volta entrati nella stanza non possiamo esimerci da dargli ragione. Beninati ha colto una certa aura, una probabilità cultuale. Ma quell’aura non apparteneva ai singoli oggetti, un armadio, una cassapanca, quanto alla costruzione totale, a quella messa in scena, con una sua particolare luminosa grazia figurativa. Un’opera del caso è per un’artista degna di sopravvivere sotto il nuovo aspetto di opera d’arte. In questo caso noi stiamo ammirando un monumento funebre, un tombeaux costruito con le vestigia povere di un quotidiano trascorso. I collage, gli assemblage, gli environment ci hanno educati alla poesia dei frammenti, del casuale, del banale. Secondo Joseph Cornell girando per le strade ci si trova “immersi in un modo di totale felicità in cui ogni cosa significante s’impregna di significato”. Il quotidiano, secondo il grande artista americano, è impregnato di luce metafisica. Dovunque possiamo essere sorpresi da epifanie. In quella pila di oggetti, con la loro storia perduta, con il loro carico di ricordi anonimi, Beninati ha colto una luce metafisica. Quell’affastellamento mi ha ricordato i “mobili nella valle” dipinti da Giorgio de Chirico, punto di riferimento per Cornell. E’ come se Beninati avesse avvertito un’energia, quegli oggetti gli si sono rivelati come “segni ermetici di una nuova malinconia”. La malinconia, in effetti, aleggia tra le opere di Beninati: sia nelle immagini dei light-box, sia nei bassorilievi, e nei bronzi. Tanta malinconia e tanta ebbrezza. Con quest’operazione – in fondo si tratta ancora una volta di un semplice ready-made – l’artista ci spiega molto della sua poetica. E lo fa con garbo, gentilezza, ma una determinazione linguistica assolutamente modernista. Uscito da quella stanza, ho subito collegato la piramide di mobili con quello che avevo guardato all’inizio del percorso espositivo, esattamente dalla parte opposta della galleria, dove Beninati ha presentato una serie di light-box e un ‘teatrino’ di oggetti svariati, cose che ha impilato e utilizzato per produrre le immagini fotografiche retro-illuminate. In fondo per Beninati non c’è differenza, tra creare e trovare. Alla fine conta l’emozione provocata. Così come non c’è distanza tra malinconia ed ebbrezza, anzi una si ripiega nell’altra. E in entrambi i casi, il passo oltre, è una riflessione profonda sulla morte e il divino.
Il percorso disegnato da Beninati è centrifugo. Perché al centro non c’è la verità, non c’è la sostanza ultima della realtà, non ci viene incontro il significato originario. E non c’è un centro, ma ci sono solo piani paralleli. Presa confidenza con un genere di lavori, si è costretti a passare ad altro. Ficcando il naso dentro ai light-box, alle immagini dei quadri, gira la testa, tanti sono i dettagli, le figure, i generi. Saltano gli opposti, convivono categorie contrarie. Nel mondo di Beninati non esiste la negazione; l’edificio figurativo è costruito in senso dialogico, tassonomico, archeologico. L’ordine non è gerarchico. L’immagine corrisponde a una reverie, a una fantasticheria. Tutto appartiene al mondo onirico e la logica combinatoria è restituita con la stessa ragionevolezza e vaghezza con cui ci si rappresenta la realtà in un sogno: ecco l’abbondanza iconografica e simbolica, la rappresentazione dello spazio eliminando coordinate geometriche, l’incrociarsi di realismo e astrattismo, il confondersi delle ere e dei giorni, archetipi e mitologemi. Come nei dipinti, come nei bassorilievi. L’artista è come guidato da una memoria più antica, da una mano non sua, da un’intelligenza atavica, che lo precede e che gli è già appartenuta. Il passato scorre davanti a noi come “ fosse un frame di una ben più lunga pellicola”. E quella pellicola si avvolge in modo strano, come un nastro di Moebius. Tra i suoi paesaggi meta-onirici e la sua cronaca esistenziale vi è stretta relazione: il quotidiano incorporato come memoria è manipolato e riformulato dall’inconscio come immagine; ed è l’inconscio a fornire, grazie a illuminazioni incondizionate, il materiale più adatto alla trasfigurazione pittorica. Quindi il vissuto annega in un tempo assai più remoto, e, quando riemerge, viene in superficie assieme al rimosso e all’archetipico. Sul quadro si assestano elementi di un’archeologia che è anche cosmologia e biologia. Come dice Giorgio de Chirico: “ Si può comprendere che ogni cosa abbia due aspetti almeno: uno corrente, quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro spettrale o metafisico che non possono che vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza”. Ecco, uno di questi rari individui, sta seduto in uno studiolo. Studia, disegna, legge al lume di una flebile luce. Sembra un alchimista. Probabilmente è l’artista, sorpreso da un indiscreto fotografo nel momento di massima concentrazione, quando in solitudine, a notte fonda abbandona i ristretti limiti dello studio e naviga nel cosmo ripercorrendo e vivendo epoche e momenti di vite precedenti. In quel momento infanzia ed eternità s’incontrano, così come gioco e sacro, poesia e divinazione. “Molti hanno già meditato sulla relazione tra il gioco e il sacro. La luce delle fantasticherie, si noti, è fioca. La semioscurità delle vecchie chiese e dei vecchi film è quella dei sogni. I nostri ricordi sono immagini divine perché la memoria non è soggetta alle leggi ordinarie del tempo e dello spazio. Quello che facciamo, fantasticando, è creare divinità. Immagini circondate dall’ombra e dal silenzio. Il silenzio è la vasta chiesa cosmica in cui siamo sempre soli. Il silenzio è l’unica lingua parlata da Dio”.² Una scultura in marmo riproduce un quaderno di appunti e schizzi dell’artista, una tazzina da caffè, gomme da cancellare, un lapis, un tempera matite, un libro chiuso. Il marmo è inciso, le scritture sul quaderno sono colorate, in blu china e rosso. Si riconoscono disegni infantili, operazioni matematiche, date e cose da fare o ricordare. Lo stesso insieme di cose realizzate col marmo s’incontrano all’interno del teatrino costruito nella galleria, e si scorgono nei light box.
La lista dei lavori è questa: dieci lightbox, cioè quadri fotografici retro-illuminati; nove bassorilievi di gesso trattati con resina colorata per cancellare assieme alla pelle biancheggiante la memoria neoclassica e ottenere una patina ambrata, più rinascimentale; una serie di bronzetti, trattati in modi diversi. Infine tre dipinti, tra cui un dittico, che ricorda per impostazione quello con le effigi dei Duchi di Urbino, una delle opere più celebri di Piero della Francesca. Tre bassorilievi di gesso sono riprodotti anche in bronzo. Beninati ha curato, anche in questo caso, la patina, cercando di aggiungere un tono pittorico alla superficie. Altri bassorilievi ripetono le stesse scene, e sono stati dipinti. Il massimo della tensione sta nella sala dei bronzetti, dove su un lungo tavolo assai stretto sono stati disposti in fila ordinata una quindicina di bronzi di varie dimensioni. All’inizio del piedistallo c’è il cadavere di un piccolo uccellino in bronzo; al termine del basamento, invece un fungo abbastanza alto, un fungo atomico. Fascinoso, malefico. Tra queste due polarità, anche sentimentali, Beninati ha posizionato dei cavallini, un barbagianni, una serie di busti e teste quasi caricaturali, figure femminili, una strana sagoma di incappucciato, che potrebbe essere uscito da una saga di Star Wars. Tirando le somme si tratta di un campionario eteroclito di figure, accostate con un gusto eclettico, quasi da collezionista e antiquario. La gamma delle passioni è variabilissima e multiforme. Oggetti di affezione che si trovano sparsi per la casa, sulle vetrine, tra gli scaffali della biblioteca familiare, nello studio, sul tavolo da lavoro. Oppure, molto più semplicemente, eccoli esposti tutti assieme su un bancone di un mercatino delle pulci.
Dunque, lightbox, pittura e scultura, cioè linguaggi e tecniche del mondo classico e di quello post-moderno, con cui l’artista afferma la sua poliedrica ispirazione e abilità, un modo di vivere e di pensare, di ricordare e di citare scavando nel passato, riesumando immagini, esperienze, microeventi dall’inconscio. Volendo fermare il tempo, Beninati ha aggiunto un’installazione, che è un’opera in sé e un set, costruito nei giorni precedenti la mostra. Ha messo in scena un magazzino-atelier. L’assemblage è stato necessario per realizzare le immagini dei lightbox. Osservando le fotografie retro-illuminate scopriamo in quell’accatastamento: oggetti di affezione, strumenti da lavoro, manichini, cornici, barattoli, stendardi, giocattoli di legno, mozziconi di sigarette, lampade da tavolo, quaderni e fogli da disegno, libri e rotoli di cartone. Scalei, scatole, matite, listelli, carta da pacchi eccetera. Perfino la polvere e la segatura che copre le cose. C’è pure l’impronta di una mano. Come se quella stanza fosse una caverna paleolitica, l’impronta è stata lasciata a memoria futura, e forse con finalità apotropaica da un pittore sciamano. Non è la prima volta che vediamo compiere uno scavo archeologico come questo. Beninati ha già presentato simili assemblaggi – teatrini di oggetti e azioni sospese nel tempo – in mostre personali e collettive: un guazzabuglio, un’accozzaglia, una baraonda di oggetti tra i più disparati e curiosi. Beninati, in tutti questi casi, lavora pensando all’inquadratura, e quindi alla reazione emotiva dello spettatore che ha la sensazione di sbirciare da una fessura l’interno di una casa, di uno studio d’artista, di un magazzino; con la sensazione di stare dentro un mondo sommerso, cioè sommerso nel tempo, incubato in un mondo in cui i cardini dell’orologio si sono bloccati, e le cose sopravvivono allo scorrere del tempo. In questo senso, le immagini e gli assemblage di Beninati sfidano la morte disseppellendo dati dell’inconscio, costruendo una realtà parallela che è montata come un sogno, come un mercantile carico di ricordi illuminato sul fondo del mare. Anche adesso ci stoppiamo, davanti a un teatrino di oggetti disparati, che è il punto di partenza delle immagini luminose. Siamo portati a usare il tempo per guardare in profondità e lentamente; via via che spostiamo l’attenzione dal primo piano in profondità, zigzagando tra le cose, vediamo meglio. E più vediamo, più abbiamo voglia di guardare per scoprire qualcosa altro, qualcosa che abbiamo tralasciato girovagando con lo sguardo per l’installazione. La cosa più interessante forse è pensare al movimento dei nostri occhi, al continuo aggiustamento del nervo ottico che deve mettere a fuoco le cose, sollecitato dalla nostra curiosità. Stiamo esercitando il nostro sguardo a guardare in un altro mondo. Come quando dentro a un museo incappiamo in una natura morta olandese con tutti i suoi particolari distribuiti realisticamente sulla tela, in modo da attirarci nell’orbita di quello spettacolo, su quella Vanitas, allegoria dedicata alla fine delle cose, alla falsità delle sensazioni; pittura che rappresenta il tempo che passa, e vuole raffigura il contrasto tra la morte nella realtà e l’immortalità nella pittura.
Non poteva mancare in mostra la pittura. I due quadri presentati sono di grandi dimensioni, disegnati con una tecnica pregevole, con elementi tratteggiati minuziosamente, alcune zone della composizione sono sfumate, assieme a dettagli e particolari sprofondati nello spazio di rappresentazione, volti e figure rese pressoché invisibili e irriconoscibili, quasi fantasmi sorpresi in giro per il mondo. Cellule luminose si alternano a zone neutre, e qui sembra dominare il non essere. Si riscontrano delle sottigliezze, linee tirate con somma precisione, elementi dipinti a trompe-l’oeil (nastro adesivo di carta, pagine di un taccuino, fiori, eccetera). L’immagine nell’insieme sembra generarsi o rigenerarsi, muoversi da un piano di profondità ad un altro, come se fossero livelli di coscienza differenti. Non vi si scoprirà un soggetto centrale o dominante, ma una costellazione di segni e di figure che esistono all’interno di una dimensione spazio-temporale onirica. Anche il colore subisce lo stesso trattamento: può essere tirato con pennelli sottilissimi fino a disegnare racemi e arabeschi che confondono il decorativo con il figurativo, oppure viene steso con spatole, o fatto colare in modo da sfigurare l’immagine che stenta ad essere riconoscibile. E’ insomma tutto un lavoro sul tempo, oltre che sullo spazio; in entrambi i casi, Beninati concepisce e sperimenta tempo e spazio a più dimensioni, una vastità illimitata, senza cornice o successione lineare, senza una prospettiva centrale-matematica. Dimensioni disorientanti e disordinate rispetto alle norme o istituzioni diurne. Elementi decorativi si trasformano in una foresta e l’intricato paesaggio a sua volta assume l’aspetto di un tendaggio di palcoscenico aperto sulla rêverie allestita secondo le indicazioni date dall’inconscio. Figure e ambienti si mostrano per immersione ed emersione: in dimensioni in ogni caso profonde e distanti, da oscurità e nebulose, come regioni subacquee e anfratti siderali. Che si tratti di un archeologia dell’inconscio lo dimostra il fatto che spesse volte nei quadri appaiono porte e finestre che si aprono sull’interno e lasciano entrare fasci luminosi oppure sguardi scrutatori. Anche nelle installazioni lo spettatore è invitato a soffermarsi su una soglia. Oltre la quale la messa in scena è come un acquario in cui gli attori e le cose vivono in un tempo e in uno spazio del profondo, del distante. Ricordi materializzati, epifanie di un vissuto che non si presenta analiticamente, ma sotto la spinta dell’immaginazione più pura e dei processi di reminescenza. [E]terniquotidianità, diceva Cornell.³
1 – La mostra, alla quale si fa riferimento, è “Logo” e si è svolta nella galleria fiorentina di Via della Scala nel 2015. Enzo Cucchi ha presentato, in quel frangente, una serie di lunghe assi di legno grezze dipinte con scene dedicate a Picasso e Van Gogh. La coppia siciliana invece aveva esposto delle parodie pittoriche su celebri quadri di Picasso. Laboratorio Saccardi è formato da Vincenzo Profeta e Marco Leone Barone.
2 – In C. Simic, Il cacciatore di immagini, 2005 Milano, p. 94.
3 – In C.Simic, op.cit., p.116