"Manfredi Beninati, Giuseppe Stampone" in Extrart, April 2007
By Franco Speroni

La mostra che comprende due installazioni di Manfredi Beninati e di Giuseppe Stampone, differenti tra loro ma fortemente correlate ed entrambe dedicate “A Flavio”, il fratello di Manfredi scomparso lo scorso anno, è tutta imperniata sull'opera come dispositivo liminare e di conseguenza sulla complessità della propriocezione e della connessione (come direbbe Derrick de Kerckhove), ovvero della percezione di sé in un luogo dal perimetro vago, perché dislocato su più piattaforme, reali, virtuali e della memoria: il museo, il collegamento bidirezionale con Second Life, ma anche la fantasmagoria cinematografica stimolata dall'opera di Beninati e il design digitale che sembra uscito dal mondo virtuale per diventare foresta pietrificata nell'installazione di Stampone. Il fruitore che entra nel museo si trova quindi dentro l'installazione di Stampone che gli fa percorrere un sentiero in una foresta stilizzata di legno bianco per condurlo verso tre pozzi, ciascuno dei quali contiene un diverso tipo di percezione.

Dalla visione di un disegno bidimensionale immerso nell'acqua, si passa ad un secondo pozzo che contiene nascosta una telecamera che riprende il visitatore, per proiettarne l'immagine analogica su uno schermo LCD sul fondo del terzo pozzo, e il segnale digitale su una texture posizionata all'interno di un pozzo virtuale in Second Life. Qui il volto naturalistico del visitatore viene osservato come una creatura aliena dagli avatar che seguono la mostra nello spazio virtuale di Diomira (custer 105, 177, 34), il “network” che lo stesso Stampone ha contribuito a creare per sviluppare iniziative culturali su più campi e in più luoghi.

Sia lo spazio reale che la sua riproposizione virtuale in Second Life sono a loro volta osservabili in un'altra stanza del museo, attraverso postazioni multimediali, tramite le quali gli avatar locali dei fruitori della mostra si incontrano con eventuali altri avatar periferici di utenti connessi in Second Life che, insieme, possono vedere lo streaming video proveniente dal mondo “reale” e, a loro volta, essere visti dall'utente delle postazioni multimediali nel museo che quindi vive contemporaneamente la percezione digitale dell'avatar e quella analogica del video. Il ritardo di circa 15 secondi con cui il video degli spettatori della mostra viene trasmesso nel pozzo virtuale di Second Life, consente agli avatar di fruire un frammento di passato degli spettatori “reali” accentuando così una percezione non solo multidimensionale ma anche multitemporale che però ha le stesse qualità emotive della diretta annullando di fatto la sequenzialità del tempo e la distinzione geometrica degli spazi. Qualcosa alla quale il cinema, per via fantasmagorica, con il montaggio, ci aveva abituati facendoci allineare nella nostra testa spazi e tempi diversi per ricostruire il senso di una trama. Qui, però, la trama lineare non c'è più: restano i dati (come aveva fatto Duchamp quando, inventando il dispositivo di Etant donnés …, collegava spazio reale del museo e spazio virtuale della visione) e l'avvio possibile di un racconto tutto da costruire. Quindi abbiamo database e narrazione potenziale, ingredienti propri del “linguaggio dei nuovi media” per Lev Manovich. A questo punto, l'immginario letterario e cinematografico che Beninati ha più volte visualizzato nei suoi lavori, diventa nelle stanze attigue all'installazione di Stampone, l'elemento che completa e rilancia il senso dell'operazione costruita dai due artisti, che è quindi una fattiva interpretazione del nostro modo di abitare lo spazio, attraverso i media vecchi e nuovi. Beninati infatti allaga un grande ambiente del museo dopo averlo costipato di mobili e di oggetti, facendoci provare mentre lo dobbiamo attraversare su passerelle precarie, il rischio e la curiosità.

Un effetto cinema ricondotto agli elementi di base propri dell'esperienza del corpo, della sensazione, senza l'ordine della narrazione sequenziale. Lo scantinato di Citizen Kane (ma le suggestioni possono riportarci a tanti altri scantinati inquietanti e attraenti che il cinema ha impresso come frammenti formativi della nostra memoria e del nostro senso dell'abitare) lo viviamo in presa diretta. Riviviamo lo spazio filmico dell'origine del cinema, quello che (riprendendo quanto scrive Alberto Abruzzese in L'occhio di Joker) consegnava il corpo dello spettatore all'esperienza viva, hic et nunc, di una rivalsa sensoriale, di un'affermazione emotiva e di un'evasione voluttuaria che consentivano una fuga dal tempo prefissato e controllato dello spazio sociale. Se le arti cosiddette “plastiche” siano oggi in grado proprio di recuperare questo aspetto voluttuario e conflittuale perché evasivo rispetto all'ordine sociale, sarebbe cosa da considerare meglio, grazie anche a mostre come questa di Beninati e Stampone che, tra l'altro, dovrebbero stimolarci a ripensare la vocazione sociale dell'arte relazionale più come creazione dell'evento hic et nunc, e quindi sperimentazione di modi differenti di sentire insieme, piuttosto che meccanismo di inserimento in un ordine sociale già conosciuto e sperimentato. Su Second Life di arte ce n'è tantissima, come osserva bene Mario Gerosa nel suo libro Second Life (pubblicato da Meltemi proprio in questi giorni), poichè è un mondo prettamente visivo dove prima di tutto si guarda. È un museo infinito, un mondo straripante di immagini, architetture, volti, vestiti, pubblicità, oggetti, che devono riempire spazi vuoti: un insieme di cose che devono sancire una presenza. Gerosa insinua anche il problema di fare ordine nel mare magnum delle sollecitazioni visive, per poter scegliere, come se si avvertisse un'esigenza di stabilire un citerio di valutazione, un “giudizio”. Un'esigenza che, più ancora della stessa presenza di oggetti e ruoli provenienti dal mondo reale, sembra proiettare nel mondo virtuale le stesse dinamiche proprie della cosidetta Real Life. Un'esigenza dell'estetica, quella del giudizio, ancora “umana, troppo umana” per un mondo virtuale liquido la cui essenza sembra essere invece la possibilità pressochè infinita di fare, di inventare, a cominciare dal proprio aspetto, dalla propria identità: un mondo fatto “ad arte” che proprio per l'assenza del giudizio dovrebbe (potrebbe?) mettere in crisi la Real Life, nella misura in cui Second Life fosse abitata da soggetti capaci di essere altro rispetto alla forza della tradizione, attraverso una creatività che dovrebbe invitare a ripensare modelli inetrpretativi come “la sparizione dell'arte” più nella versione affermativa della “stupita fatticità” (riprendendo la polemica tra Adorno e Benjamin) piuttosto che come perdita. La mostra “A Flavio” stabilisce un nesso forte tra fatticità delle arti sempre più autonome nell'autodefinizione del proprio senso per mezzo del proprio esserci afferamtivo, e le potenzialità inventive ed esperienziali di Second Life. L'installazione multimediale di Stampone, infatti, non trasporta (come spesso accade) opere, e quindi valori già esistenti, dal mondo reale a quello virtuale, ma crea un dispositivo di sconfinamento che produce relazioni “postumane” tra avatar e soggetti naturalistici, tra esperienze nello spazio reale ed esperienze nello spazio virtuale, a loro volta amplificate dalle archetipologie dell'immaginario cinematografico inscenate da Beninati. Dunque la mostra nel suo insieme è un luogo dove, riprendnedo le intuizioni di Michel Maffesoli (Dall'astrazione all'emozione, in Immaginari postdemocratci a cura di Alberto Abruzzese e Vincenzo Susca), la sostanza solida di un individuo lascia il posto a qualche cosa di molto più “diffuso”. La mostra è il dispositivo per cui alla violenza simbolica del logos si sostituisce il luogo condiviso che diventa legame : le lieu fait lien.